Dove le radici tengono ben saldo il terreno culturale di una comunità, l’arcaico si manifesta con vigore. Succede a Tufara, fazzoletto di terra molisano incastrato tra Puglia e Campania. La macchia mediterranea, folta, umida, nasconde fino a gli ultimi tornanti il piccolo borgo raccolto sulla sommità di una roccia tufacea, attorno a una robusta fortezza longobarda. È un posto tranquillo Tufara, estremamente, non di martedì grasso però, quando la quiete delle stradine del centro è sciabordata da uno dei più antichi e suggestivi carnevali d’Italia.
Lo sferragliare delle falci, le corse precipitose, inquietanti cantilene accompagnano un piccolo corteo mascherato. Passa il Diavolo! Pelli di capra lo vestono mentre si agita convulsamente, si rotola e poi guizza ancora per aria, nascosto da una maschera dal ghigno a dir poco sinistro. Alcune figure in nero lo braccano, tutti però preceduti dalla morte, impersonata da soggetti vestiti di bianco e con il viso impasticciato di farina. Forca, falci, catene. Gli astanti, specie i forestieri, trattengono il fiato, sedotti e intimoriti al tempo stesso dalla barbarica pantomima ambulante. Basta un’occhiata per capire che la sfilata viene in corsa, come per incanto, da tempi assai remoti.
Il Diavolo, l’uomo capra, il dio e il buffone. Nel carnevale di Tufara e nella sua maschera più caratteristica, sono diverse le origini e le influenze che ne determinano lo stato attuale. Legato molto probabilmente a riti pagani consacrati a Dioniso in un mondo contadino e selvaggio, ha incrociato nei secoli il culto dei morti. In entrambi i casi lo scopo degli adepti era quello di accattivarsi, attraverso donazioni e sacrifici prima, e con la celebrazione e la rappresentazione poi, la benevolenza di queste potenti entità per sperare in un domani più prospero. È stato quindi il cristianesimo a retrocedere questi intensi momenti di culto pagano a farsa carnevalesca. Il dio non doveva essere più tale, sarebbe stato imperdonabile. Diviene quindi ufficialmente un fantoccio… Non per il popolo però, che, per un inconscio, ancestrale sentire forse non ha mai smesso in cuor suo di tributargli la dovuta importanza. Sono queste attività una mera, folcloristica rappresentazione di rituali irrimediabilmente perduti o sono essi stessi rituali a tutti gli effetti? A gli antropologi la rognosa questione.
Campo a parte fanne le altre figure e maschere, quelle indipendenti dal corteo del diavolo, che vivono nel carnevale del bel borgo molisano. Di fatti il Diavolo è quasi un corpo estraneo, un ospite inatteso, in quello che è un tipico scenario carnevalesco italico, dove una bambola (rappresentate il carnevale stesso) viene processata e condannata.
Chissà, magari ne parleremo nella prossima puntata. Per ora speriamo di aver trasmesso anche un briciolo del fascino selvaggio e arcano che solo figure come il Diavolo sanno emanare, modello, insieme al Cervo sempre molisano, ai Mamuthones, ai Boes sardi, e ai diversi carnevali Italiani, di un patrimonio etnico, antropologico e storico immane.