Per il Molise è stata la notizia del giorno: la transumanza è patrimonio immateriale dell’UNESCO. Non la transumanza del Molise, ma la pratica stessa della transumanza. Che è presente in Molise come in altre regioni d’Italia, ma anche in altri angoli del mondo.
Un percorso, quello che si è concluso ieri al comitato UNESCO di Bogotà, compiuto dietro la forte spinta della famiglia Colantuono e dell’ASVIR Moligal. E portato avanti da una rete di competenze che compatta è riuscita a produrre tutto il materiale necessario. Tra queste competenze il Centro BIOCULT dell’Università degli Studi del Molise, che porta avanti la ricerca al fianco dei protagonisti del pascolo vagante.
Letizia Bindi, antropologa e docente associato Unimol, toscanissima ma da oltre vent’anni adottata dal Molise, si occupa da sempre di valorizzazione del patrimonio demologico come Misteri e Carresi. E per la transumanza ha condotto come altri, senza protagonismi, ma con attenzione e passione, studi e pratiche volti alla transumanza patrimonio UNESCO. Con lei parliamo del lavoro condotto e delle prospettive di questo percorso.

Professoressa Bindi, il risultato raggiunto è l’esito di un certosino lavoro di rete. Quali sono state fino ad oggi le maggiori difficoltà nel procedere?
Quello ufficializzato a Bogotà è l’esito di un lungo lavoro di squadra che trova nel Molise un punto nevralgico nella sollecitazione che già parecchi anni fa venne dalla famiglia Colantuono e da ASVIR Moligal. Inizialmente l’obiettivo era patrimonializzare i tratturi sui siti UNESCO; successivamente si è passati al patrimonio immateriale. Va dato dunque grande merito a questa famiglia che con determinazione nel corso dei decenni ha sostenuto e caldeggiato questa strada insieme a tutti coloro che hanno operato nella stessa direzione.
Noi come Unimol, cercando di fare al meglio il nostro mestiere di ricercatori, abbiamo contribuito con un documento scientifico proveniente dalle nostre ricerche nazionali ed internazionali in collaborazione con Francia, Spagna, Polonia, Albania, Norvegia e un grande lavoro transfrontaliero con il Sud America che si sta concretizzando con un comune progetto con aree di transumanza in Patagonia.
È facile associare un risultato come quello di ieri alle bellissime manifestazioni che sono sotto gli occhi di tutti, ma a quanto pare il lavoro che c’è dietro è lungo e pesante. La competenza ha dunque ancora un suo peso?
Beh, diciamo che la sollecitazione iniziale è stata importante. Ma altrettanto determinante ad un certo punto del percorso è stato il contatto col Ministero delle Politiche agricole, in particolare col gruppo che redige le candidature e che fa capo a Pierluigi Petrillo e Alessandro Zagarella. Candidature che in questa tornata hanno avuto quasi tutte successo perché fatte a regola d’arte. Parliamo di beni come la dieta mediterranea, pizza napoletana e molti altri.
In che cosa consiste la candidatura?
La candidatura è un elaborato dossier di documenti di supporto che testimoniano la presenza del fenomeno della transumanza in tutti gli stati previsti dalla rete. L’Italia è capofila con diverse realtà regionali che stiamo da tempo studiando, documentando e schedando. Il dossier, guidato nella sua elaborazione dal team del Ministero è stato elaborato così bene che è stato premiato dall’UNESCO come buona pratica di candidatura.
Questo è il quadro nel quale la candidatura si è sviluppata, un percorso partito nel 2015 con i primi lavori di schedatura e giunto alla confezione definitiva alle soglie del 2018.
In termini pratici quali ricadute dirette avrà questo evento sul territorio?
Va ricordato con cura che, al di là di dell’aspetto di spettacolarizzazione che si muove intorno ai successi, le candidature UNESCO non sono semplici bollini d’eccellenza. Sono ma veri e propri impegni che le comunità custodi del bene si assumono di fronte alla comunità internazionale.
Che cosa vuol dire questo materialmente? Significa impegnarsi costantemente a lavorare perché il bene rimanga nel tempo non come replica teatralizzata, ma come reale attività, vivente. Perché con la pratica si mantengono le comunità, si mantengono i paesaggi. Ad esempio i tratturi esistono se ci sono animali e uomini che li attraversano, altrimenti deperiscono. E con essi le pratiche sul tratturo vivono.
Ora inizia davvero il lavoro: occorre attivare le strategie di valorizzazione per le quali comunità ed istituzioni, con l’aiuto di esperti, dovranno parlarsi. Dovranno trovare la strada migliore per mantenere il bene nel tempo, con attenzione a coloro che queste pratiche le hanno mantenute.
Non c’è dubbio, poi, che il successo della candidatura sia veicolo di grandi benefici in termini di visibilità. Ma va considerata soprattutto un’opportunità per reimpostare davvero in maniera smart, avanzata, il processo di cura del territorio come patrimonio comunitario, di tutti.
Dunque la transumanza patrimonio UNESCO più che un traguardo è una partenza…
Siamo ad un punto d’inizio per la tutela. Lo stanno dicendo in molti, io stessa nell’attesa del responso lo ricordavo. Che vuol dire ai fatti? Vuol dire cominciare a mediare, a costruire davvero.
Significa mettersi d’accordo su cosa vuol dire conservare i tratturi, su cosa vuol dire avere cura del territorio e delle comunità. Mettersi d’accordo su cosa vuol dire fare turismo nelle aree di pastoralismo e di transumanza. Perché non può voler dire farne un gran mercato o mercificare.
Vuol dire rispetto, sostenibilità dell’azione turistica. Bisogna lavorare con cura a una salvaguardia sapiente, concordata, dove le competenze si incontrano con l’esperienza di chi conosce le pratiche.
Un lavoro sinergico che pensi al bene comune e non lasci spazio ai privatismi.
(foto moliseinvita.it)